giovedì 3 marzo 2011

come diventiamo cinici


Sapete nel mio mestiere, che è quello di fare video, passo moltissimo tempo a cercare di essere gentile con tutti. Con il cliente, con il montatore, con l'elettricista, con la casa di produzione con "il cazzo che ve se frega" (la citazione è QUI). Si passa così tanto tempo a cercare di essere sinceramente propositivi, sinceramente proattivi, sinceramente qualsiasi cosa che a volte si perde il senso di realtà. Ieri ho capito come in una illuminazione che il cinismo è questo. Non quello caricaturale da film, in cui persone con il labbro piegato disprezzano tutto. Ma  quello reale della vita di tutti i giorni,  in cui ci si sforza di apprezzare tutto, ci si sforza così tanto di provare empatia per cose stupide da esserne svuotati. Perché il gioco delle parti impone quello, perchè la struttura (anzi la famosa sovrastruttura marxista!) impone che il mio cliente dica con finto imbarazzo "lo so che mi odierai per tutte queste modifiche" e che tu debba rispondere soave "ma no figurati! E' normale, è lavoro, tu cerchi il miglior prodotto possibile!" e forse il cinismo è sapere che quello che stai rispondendo in parte è vero, che lo credi in astratto ma è estremamente sfibrante dal vero. E questo ti rende pazzo di frustrazione.
Ormai il lavoro terziario moderno non obbliga solo alla "delivery" (la consegna) nei tempi stabiliti.  Obbliga a farlo soddisfacendo ogni cambiamento ed esitazione possibile, imponendoti di mischiare bastone e carota con abilità e mestiere, blandendo e minacciando, in un continuo gioco di forza emotivo che si deve eseguire con impareggiabile abilità,  rimanendo (è dovuto) sempre allegri e motivati. Profondamente partecipi dello sforzo che il cliente fa.
La lotta di classe era bellissima perchè ti permetteva di fare il tuo lavoro e mantenere il cattivo umore. Oggi invece, la grande tragedia della precarietà è che tutti devono anche sembrare contenti: operatori di call center, PR, addetti stampa, esperti di comunicazione. Non stai vendendo un muro di mattoni tirato su a puntino, che puoi concludere anche a grugniti, tanto conta il muro. No, qui il processo con cui costruisci il tuo muro, (ormai trasformato in oggetto immateriale) è parte integrante del prodotto che vendi. Se giri un buon video e sei di cattivo umore, non sei un buon regista. Se l'evento è andato benissimo ma avevi la piva lunga, non sei un buon Pr.
Oggi noi tutti vendiamo finta felicità pronta cassa. E la vendiamo anche sottopagati.
In sostanza oggi non possiamo più soltanto lavorare, dobbiamo lavorare felici di condividere una "mission" un "obbiettivo" del nostro cliente, fargli sentire la nostra profonda empatia per il suo filmatino che va in onda nella settimana della moda.
E non lo dico io.
Lo dice un filosofa italiana che sta a Parigi. Si chiama Michela Marzano, il suo libro "estensione del dominio della manipolazione" parla di questo. Di come insomma dobbiamo fingere che tutto sia importante, mentre sappiamo che solo poche cose lo sono davvero.
E poi fingere per troppo tempo è nocivo. Capire se quella empatia che stai evocando in te stesso (così come un attore dell'actor's studio riesce a provocare in se un "vero" sentimento) è finta oppure reale, porta a confondere i piani in una schizofrenia che è anticamera del disagio.
E siccome provi empatia per chi non devi, non la provi più per chi dovresti.
Eccoti cinico. Usi sentimenti giusti nel modo sbagliato.
Io ci sto attento e piango ancora davanti ai bei film.
Ma non è mica detto che non mi succeda prima o poi.
Nel caso vi avviso.



the searcher


la foto è Magnum e la trovate qui

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